Massimo Dei Cas
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2.
LA DIALETTICA DELLA RAGION PURA PRATICA.
Anche la ragion pura pratica
ha una sua dialettica che si esprime nell’antinomia della ragion pratica.
L’uomo è infatti un essere anche sensibile, per cui il problema della felicità
non può essere totalmente escluso dalla riflessione morale. Kant distingue il bene
supremo, identificato nella virtù, cioè con l’intenzione morale conforme
ai dettami della ragione, dal bene sommo,
che è l’unione di virtù e felicità,
aggiungendo che è dovere di ogni uomo promuovere il sommo bene, cioè agire in
modo che ciascuno possa godere di una felicità commisurata alla virtù. Egli è
infatti convinto che la virtù costituisca l’autentico valore dell’uomo,
conforme alla sua dignità di essere razionale, per cui essere virtuosi
significa rendersi meritevoli della felicità. A questo punto però sorge l’antinomia
della ragion pratica, che riguarda i rapporti fra virtù e felicità. Essa
viene così espressa da Kant: o il desiderio
della felicità dev’esser la causa movente per la massima della virtù, o la
massima della virtù dev’esser la causa efficiente della felicità. In
altri termini, le proposizioni antinomiche sono le seguenti: la ricerca della
felicità è causa della virtù, oppure la virtù è causa della felicità. La
prima proposizione viene dichiarata da Kant assolutamente falsa, poiché mina le
fondamenta stesse della moralità: se infatti agiamo per ricercare la felicità,
la nostra azione ricade sotto il principio dell’amor proprio, per cui non ha
valore morale e non può quindi causare in noi la virtù. Anche la seconda
proposizione è falsa, però non assolutamente, bensì solo relativamente alla
dimensione fenomenica. Ciò lascia aperta la possibilità che essa sia vera
nella dimensione noumenica, e noi dobbiamo postulare che lo sia, perché in caso
contrario avremmo la situazione assurda nella quale chi si rende meritevole
della felicità, cioè l’uomo virtuoso, non è effettivamente felice. Non
potendo accettare una tale assurdità, che priverebbe di senso l’intero
discorso morale, dobbiamo postulare che il sommo bene sia reale nella dimensione
noumenica, cioè al di fuori di spazio e tempo. Kant introduce così, come postulati
morali, l’immortalità dell’anima
e l’esistenza di Dio. Un postulato
è una proposizione teoreticamente indimostrabile, della cui verità siamo però
moralmente certi (fede morale), perché se venisse negata
la moralità non avrebbe significato e non sarebbe neppure pensabile.
L’immortalità dell’anima è la condizione perché ogni uomo possa godere di
quella felicità di cui si è reso meritevole mediante la virtù, in un infinito
percorso di perfezionamento morale (la perfezione morale è infatti una meta
collocata ad una distanza infinita). Dio, in virtù della sua onnipotenza, è il
supremo garante di questo destino ultraterreno delle anime. Vi è infine un
terzo postulato morale, quello della libertà (di cui Kant parla nella Fondazione
della metafisica dei costumi e
nell’Analitica della Critica
della ragion pratica), intesa come indipendenza
dalla legge naturale dei fenomeni, indipendenza
dalle inclinazioni e legislazione della
ragion pura pratica che determina la volontà. La libertà è dunque una
forma di causalità non determinata, ma spontanea, che deriva direttamente dalla
ragione e si esercita sulla volontà. Essa non è mai riscontrabile nella
dimensione fenomenica, concepita deterministicamente. Tuttavia è possibile
pensare che una serie di fenomeni sia sottoposta ad un duplice ordine di
causalità, quella naturale e deterministica e quella libera che discende dalla
ragione dell’uomo e dal suo carattere intelligibile, che appartiene alla
radice noumenica dell’uomo. Questa possibilità diventa una certezza morale
alla luce dell’imperativo categorico. Quest’ultimo è un fatto della ragion
pura, cioè risuona nella coscienza di ogni uomo, fosse anche il peggior
malfattore, purché questi voglia consultarla. Ma il tu
devi non avrebbe senso, non sarebbe neppure pensabile senza un tu
puoi, cioè la legge morale non sarebbe pensabile senza libertà. Dunque
la libertà è ratio essendi della
moralità, mentre questa è ratio cognoscendi della
libertà, perché giungiamo a pensare quest’ultima
solo partendo dalla legge morale. Bisogna infine menzionare l’affermazione
kantiana del primato della ragion pratica
rispetto a quella teoretica: il problema morale, infatti, a differenza di quello
teoretico, è universale, cioè tocca ogni uomo. La ragion pratica, poi, conduce
a certezze che la ragione teoretica ci nega, cioè ci conduce a postulare
un’esistenza dell’uomo anche oltre la dimensione fenomenica, e queste
certezze non possono in alcun modo essere scalfite da alcuna argomentazione
teoretica. In questo senso Kant aveva già affermato, nella Critica
della ragion pura, di aver soppresso il sapere per far posto alla fede,
ovviamente in una dimensione morale.