A. LE COORDINATE TEORICHE DEL CRITICISMO KANTIANO

B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: PREFAZIONI, INTRODUZIONE
B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: L'ESTETICA TRASCENDENTALE
B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: ANALITICA TRASCENDENTALE
B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: DIALETTICA TRASCENDENTALE
C. LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA: L'ANALITICA DELLA RAGION PURA PRATICA
C. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: LA DIALETTICA DELLA RAGION PURA PRATICA
D. LA CRITICA DEL GIUDIZIO (IL GIUDIZIO ESTETICO)
HOME

Massimo Dei Cas
Via Morano, 51 23011 Ardenno (SO)
Tel.: 0342661285 E-mail: massimo@waltellina.com

 

 2. LA DIALETTICA DELLA RAGION PURA PRATICA.

Anche la ragion pura pratica ha una sua dialettica che si esprime nell’antinomia della ragion pratica. L’uomo è infatti un essere anche sensibile, per cui il problema della felicità non può essere totalmente escluso dalla riflessione morale. Kant distingue il bene supremo, identificato nella virtù, cioè con l’intenzione morale conforme ai dettami della ragione, dal bene sommo, che è l’unione di virtù e felicità, aggiungendo che è dovere di ogni uomo promuovere il sommo bene, cioè agire in modo che ciascuno possa godere di una felicità commisurata alla virtù. Egli è infatti convinto che la virtù costituisca l’autentico valore dell’uomo, conforme alla sua dignità di essere razionale, per cui essere virtuosi significa rendersi meritevoli della felicità. A questo punto però sorge l’antinomia della ragion pratica, che riguarda i rapporti fra virtù e felicità. Essa viene così espressa da Kant: o il desiderio della felicità dev’esser la causa movente per la massima della virtù, o la massima della virtù dev’esser la causa efficiente della felicità. In altri termini, le proposizioni antinomiche sono le seguenti: la ricerca della felicità è causa della virtù, oppure la virtù è causa della felicità. La prima proposizione viene dichiarata da Kant assolutamente falsa, poiché mina le fondamenta stesse della moralità: se infatti agiamo per ricercare la felicità, la nostra azione ricade sotto il principio dell’amor proprio, per cui non ha valore morale e non può quindi causare in noi la virtù. Anche la seconda proposizione è falsa, però non assolutamente, bensì solo relativamente alla dimensione fenomenica. Ciò lascia aperta la possibilità che essa sia vera nella dimensione noumenica, e noi dobbiamo postulare che lo sia, perché in caso contrario avremmo la situazione assurda nella quale chi si rende meritevole della felicità, cioè l’uomo virtuoso, non è effettivamente felice. Non potendo accettare una tale assurdità, che priverebbe di senso l’intero discorso morale, dobbiamo postulare che il sommo bene sia reale nella dimensione noumenica, cioè al di fuori di spazio e tempo. Kant introduce così, come postulati morali, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Un postulato è una proposizione teoreticamente indimostrabile, della cui verità siamo però moralmente certi (fede morale), perché se venisse negata  la moralità non avrebbe significato e non sarebbe neppure pensabile. L’immortalità dell’anima è la condizione perché ogni uomo possa godere di quella felicità di cui si è reso meritevole mediante la virtù, in un infinito percorso di perfezionamento morale (la perfezione morale è infatti una meta collocata ad una distanza infinita). Dio, in virtù della sua onnipotenza, è il supremo garante di questo destino ultraterreno delle anime. Vi è infine un terzo postulato morale, quello della libertà (di cui Kant parla nella Fondazione della metafisica dei costumi  e nell’Analitica della Critica della ragion pratica), intesa come indipendenza dalla legge naturale dei fenomeni,  indipendenza dalle inclinazioni e legislazione della ragion pura pratica che determina la volontà. La libertà è dunque una forma di causalità non determinata, ma spontanea, che deriva direttamente dalla ragione e si esercita sulla volontà. Essa non è mai riscontrabile nella dimensione fenomenica, concepita deterministicamente. Tuttavia è possibile pensare che una serie di fenomeni sia sottoposta ad un duplice ordine di causalità, quella naturale e deterministica e quella libera che discende dalla ragione dell’uomo e dal suo carattere intelligibile, che appartiene alla radice noumenica dell’uomo. Questa possibilità diventa una certezza morale alla luce dell’imperativo categorico. Quest’ultimo è un fatto della ragion pura, cioè risuona nella coscienza di ogni uomo, fosse anche il peggior malfattore, purché questi voglia consultarla. Ma il tu devi non avrebbe senso, non sarebbe neppure pensabile senza un tu puoi, cioè la legge morale non sarebbe pensabile senza libertà. Dunque la libertà è ratio essendi della moralità, mentre questa è ratio cognoscendi della libertà, perché giungiamo a pensare  quest’ultima solo partendo dalla legge morale. Bisogna infine menzionare l’affermazione kantiana del primato della ragion pratica rispetto a quella teoretica: il problema morale, infatti, a differenza di quello teoretico, è universale, cioè tocca ogni uomo. La ragion pratica, poi, conduce a certezze che la ragione teoretica ci nega, cioè ci conduce a postulare un’esistenza dell’uomo anche oltre la dimensione fenomenica, e queste certezze non possono in alcun modo essere scalfite da alcuna argomentazione teoretica. In questo senso Kant aveva già affermato, nella Critica della ragion pura, di aver soppresso il sapere per far posto alla fede, ovviamente in una dimensione morale.

A. LE COORDINATE TEORICHE DEL CRITICISMO KANTIANO

B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: PREFAZIONI, INTRODUZIONE
B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: L'ESTETICA TRASCENDENTALE
B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: ANALITICA TRASCENDENTALE
B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: DIALETTICA TRASCENDENTALE
C. LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA: L'ANALITICA DELLA RAGION PURA PRATICA
C. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: LA DIALETTICA DELLA RAGION PURA PRATICA
D. LA CRITICA DEL GIUDIZIO (IL GIUDIZIO ESTETICO)
HOME