A. LE COORDINATE TEORICHE DEL CRITICISMO KANTIANO

B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: PREFAZIONI, INTRODUZIONE
B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: L'ESTETICA TRASCENDENTALE
B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: ANALITICA TRASCENDENTALE
B. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: DIALETTICA TRASCENDENTALE
C. LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA: L'ANALITICA DELLA RAGION PURA PRATICA
C. LA CRITICA DELLA RAGION PURA: LA DIALETTICA DELLA RAGION PURA PRATICA
D. LA CRITICA DEL GIUDIZIO (IL GIUDIZIO ESTETICO)
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LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA

 

1. L’ANALITICA DELLA RAGION PURA PRATICA.

1.1. LA SPIEGAZIONE DEL TITOLO.

Il titolo Critica della ragion pratica significa “critica della ragione empirica pratica”, in quanto la ragion pura pratica non è soggetta a critica, a differenza della ragione pura teoretica. Infatti la ragione pratica, a differenza di quella teoretica, deve essere incondizionata e quindi pura, perché una ragione pratica empirica non può condurre ad una morale universale e necessaria, e quindi veramente vincolante per tutti. In altre parole, per comprendere cosa si deve fare non bisogna guardare a ciò che gli uomini, per lo più, fanno, cioè non ci si deve riferire all’esperienza, ma si deve interpellare la ragione pura, che nel dominio pratico fa valere appieno la sua esigenza dell’incondizionato. Il dovere è dunque incondizionato, ed è la pretesa di individuarlo empiricamente che deve essere criticata.

 1.2. IL PRINCIPIO DELL’AMOR PROPRIO.

Kant è convinto che qualunque azione abbia come movente fondamentale il principio dell’amor proprio, cioè la ricerca della felicità, non possa avere valore morale, poiché questo principio non è universalizzabile. In altre parole, se gli uomini pensassero di costruire una morale sull’universale aspirazione alla felicità (utilitarismo), ciò non sarebbe possibile, in quanto non vi può essere accordo necessario su cosa si debba intendere per felicità. In generale, nessun oggetto della volontà è di per sé buono, poiché incondizionatamente buona può essere solo la volontà stessa; dunque una morale veramente universale non si può fondare sull’individuazione di un oggetto riconosciuto da tutti come di per sé buono, ma sulla bontà di una volontà che vuole incondizionatamente, cioè che prescinde dal principio dell’amor proprio e dalla pur legittima aspirazione alla felicità.

 1.3. MASSIME ED IMPERATIVI.

Un principio morale si dice massima se ha valore solamente soggettivo, mentre è un imperativo se ha valore oggettivo. Gli imperativi, poi, possono essere ipotetici o categorici. Nei primi il tu devi, cioè l’aspetto oggettivo, è subordinato ad un se vuoi, cioè ad un aspetto soggettivo, per cui essi non sono incondizionatamente oggettivi. Nell’imperativo ipotetico se vuoi conservare la buona salute, devi mantenere uno stile di vita morigerato il dovere non è incondizionato, ma dipende dall’individuazione della buona salute come elemento necessario per la propria felicità. Gli imperativi categorici, invece, sono assolutamente oggettivi perché non sono sottoposti ad alcuna condizione. L’imperativo non devi mai mentire, infatti, comanda incondizionatamente, ed è quindi una vera legge pratica incondizionata, che mi impone di non mentire per alcun motivo, in qualunque circostanza mi trovi, accada quel che accada. Solo gli imperativi categorici costituiscono dunque l’autentica morale oggettiva, cioè universalmente valida.

 1.4. LE FORMULE DELL’IMPERATIVO CATEGORICO.

Nella Critica della ragion pratica Kant propone una sola formula dell’imperativo categorico: opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale. In altri termini: agisci in modo tale che il criterio fondamentale della tua azione possa valere come legge cui tutti obbediscano incondizionatamente. Per comprendere se un’azione è conforme al dovere, dunque, mi debbo domandare: vorrei vivere in un mondo in cui tutti, infallibilmente, agissero secondo i criteri che sottostanno alla mia azione? Questa domanda mi permette di distinguere con tutta chiarezza ciò che debbo e ciò che non debbo fare (p. es., non debbo suicidarmi, non debbo promettere ciò che so di non poter mantenere, non debbo sprecare i miei talenti oziando, non debbo negare l’aiuto a chi, senza sua colpa, si trova in gravi difficoltà). Nella Fondazione della metafisica dei costumi sono riportate altre due formule, una delle quali è la seguente: agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo. È infatti la ragione che conferisce all’uomo la dignità di fine, per la quale non può essere ridotto a semplice strumento degli scopi di altri uomini.

 1.5. LE CARATTERISTICHE DELLA DOTTRINA MORALE KANTIANA.

 1.5.1. IL FORMALISMO.

Si parla di formalismo della morale kantiana perché l’imperativo categorico è vincolante per la sua forma, non per la sua materia, cioè per il  suo contenuto. Infatti non possiamo trovare alcun oggetto del volere che sia buono incondizionatamente: qualunque cosa volgiamo, essa non è di per sé buona, ma lo diventa alla luce del movente ultimo per cui la vogliamo. In altre parole, per stabilire il valore morale di un’azione non si deve guardare a ciò che si fa, cioè al contenuto o materia della volontà, ma al perché ultimo si fa ciò che si fa, cioè alla forma della volontà. Se il movente ultimo dell’azione è la ricerca della felicità, l’azione stessa non ha alcun valore morale. Se invece esso è costituito dal rispetto dell’imperativo categorico, se cioè si compie il dovere per il dovere, l’azione assume un autentico valore morale. Kant è convinto che una morale veramente oggettiva, cioè universalmente valida, non si può fondare su un oggetto della volontà che sia incondizionatamente buono, perché esso non esiste. Non possiamo neppure cercare tale oggetto guardando a quello che gli uomini per lo più vogliono, cioè assumendo una prospettiva empiristica: la ragione pratica deve essere pura, non empirica. Non resta che cercare nella forma quella universalità che un’autentica morale non può non possedere.

 1.5.2. L’ANTIEUDEMONISMO. 

Mentre la riflessione morale precedente, fin dall’antichità, è eudemonistica, Kant rifiuta tale prospettiva. L’eudemonismo è quella posizione per la quale il fondamento della morale è rappresentato dal bene oggettivo, nel quale può trovare autentico appagamento l’universale aspirazione umana alla felicità. In tale prospettiva il motivo determinante dell’azione morale è materiale, non formale, il che, secondo Kant, non consente di costruire una morale veramente universale. Infatti se è vero che tutti gli uomini aspirano alla felicità, non è però possibile individuare a priori un oggetto che possa universalmente soddisfare tale aspirazione, per cui una morale fondata sull’aspirazione alla felicità rimarrebbe legata al piano empirico, mentre la ragion pratica deve svincolarsi da tale piano, ed essere pura, cioè esigere l’incondizionatezza che garantisce universalità e necessità ai suoi dettami. Bisogna infine tener presente che Kant non intende negare la possibilità che l’uomo aspiri e tenda alla felicità: ricercare la felicità non è di per sé contrario al dovere morale. Kant intende solo affermare che quando è in gioco il dovere, il bisogno della felicità va, per così dire, messo fra parentesi, cioè non deve interferire nella scelya morale. 

1.5.3. IL RIGORISMO.

Per Kant il valore morale di un’azione dipende esclusivamente dal movente, cioè non da ciò che si fa, ma dal perché lo si fa. Per questo un’azione può essere conforme al dovere, ma non avere valore morale: ciò accade quando il movente ultimo che la determina non è quello del semplice rispetto del dovere, ma rimanda al principio dell’amor proprio (è costituito cioè, per esempio, dalla vanagloria, dal desiderio di plauso, dalla compassione, e così via). Un’azione autenticamente morale non può essere accompagnata da alcun sentimento di autocompiacimento o compassione, ma solo dal sentimento di rispetto per la legge morale. Kant afferma peraltro che noi, dal momento che ci conosciamo come fenomeni, e non come noumeni, non possiamo conoscere con certezza il movente ultimo che determina le nostre azioni, per cui non possiamo mai avere la certezza di aver agito moralmente. La nostra, infine, non è una volontà santa, per cui la perfetta adeguazione della volontà ai dettami della ragione è una meta a cui dobbiamo tendere infinitamente, senza poterla mai raggiungere.

 1.5.4. L’AUTONOMIA.

La morale kantiana è autonoma poichè afferma che l’uomo, in quanto essere razionale, dà a se stesso la legge morale, cioè non la riceve da una fonte che sia a lui esterna. È infatti il dettame della pura ragione, che risuona nella coscienza di ogni uomo, purchè questi la voglia consultare, la fonte degli imperativi morali. Kant rifiuta quindi ogni morale eteronoma, che affermi cioè la provenienza delle norme morali da una realtà diversa dalla pura ragione (p. es. la volontà divina).

 1.6. IL REGNO DEI FINI.

Il regno dei fini rappresenta una comunità ideale, nella quale ciascun uomo agisce in perfetta conformità con i dettami della ragione, per cui fra gli uomini si realizza un perfetto accordo e l’umanità di ciascuno viene rispettata come fine. A tale comunità ideale gli uomini debbono tendere nel loro costante perfezionamento morale, anche se la loro finitezza la rende una meta collocata ad una distanza infinita.

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