LA
SPINA DELLA VALUTAZIONE NELLA ROSA DELL’INSEGNAMENTO
Ho letto i materiali
sulla valutazione forniti durante l’ultimo incontro (06/10/2003): Ivana Niccolai
offre una panorama esaustiva, puntuale e preziosa
sul tema, proponendo una ricca gamma di informazioni, che spesso non si trovano
nei documenti o nei saggi dedicati a questo nodo strategico della programmazione
e dell’attività didattica (rilevo solo una piccola imprecisione: illustrando
la celeberrima tassonomia di Bloom, parla di obiettivi,
laddove sarebbe più corretto parlare di categorie, cioè di grossi contenitori
al cui interno si debbono individuare e ritagliare obiettivi cognitivi, a
breve, medio e lungo termine).
Propongo, a mia,
volta, qualche ulteriore riflessione, partendo dal
ricordo di un’assemblea di Istituto di alcuni anni fa, dedicata al tema dei
rapporti fra alunni e docenti, ma anche da discussioni che mi capita talvolta
di intavolare in alcune classi. Se mi dovessero chiedere
di indicare quali siano le principali attese degli alunni rispetto ai propri
docenti, risponderei indicandone tre:
-
obiettività e ponderazione nella valutazione;
-
limitazione della valutazione alla performance, senza estensione
alle capacità o, ancor peggio, alla personalità;
-
capacità di calibrare i carichi di lavoro sulle potenzialità
della classe.
Le prime due aspettative
riguardano il tema della valutazione, che chiama in gioco non due, ma tre,
se non quattro soggetti: il docente, l’alunno, la sua famiglia ed il Consiglio
di Classe.
Tutto questo rende
la tematica estremamente complessa, ed implica i
seguenti punti di attenzione.
- Parto
dal tema dell’obiettività: gli alunni di scuola media superiore (ma, penso,
non solo loro), sono estremamente sensibili all’obiettività
della valutazione, intesa nel duplice senso di imparzialità e corrispondenza
del voto al grado di difficoltà della prova.
A partire da questo problema si sono sviluppate, da alcuni decenni, le riflessioni
della docimologia,
che si è occupata in generale del controllo scolastico (o valutazione) ed
in particolare delle condizioni e delle procedure che rendono oggettiva
una valutazione a partire da una misurazione. L’idea di
fondo è che valutare, più che attribuire un valore, sia rilevare
un valore: il valore non viene attribuito alla prova, ma c’è già, è oggettivamente
presente in questa, e si tratta solo di rilevarlo, di portarlo alla luce.
I meccanismi docimologici impongono rigore formale,
e privilegiano le prove strutturate, nelle quali la misurazione
è del tutto impersonale (la potrebbe effettuare anche un computer), lasciando
però qualche spazio discrezionale nel passaggio dalla misurazione (punteggio)
al voto.
Interessanti sono le riflessioni sulle scale di misurazione. Quella con
valori da 1 a 10 dovrebbe essere considerata, nonostante utilizzi numeri,
una scala nominale, in quanto il passaggio da un grado all’altro non avviene
per incrementi uguali (non ha senso dire che l’incremento di conoscenze/competenze
che determina il passaggio da 5 a 6 sia lo stesso di quello che porta da
6 a 7), e non esiste uno 0 assoluto (per cui non posso dire che conoscenze/competenze
di chi ha 8 siano doppie di quelle di chi ha 4). I voti segnalano livelli
di conoscenze/competenze che andrebbero specificati. Affidarsi alle indicazioni
della docimologia sgrava il processo valutativo di molti elementi ansiogeni,
rende il docente più sicuro, ma comporta alcuni rischi di riduttivismo
nelle prove di valutazione (si privilegiano i test
strutturati, poiché quelli non strutturati, o, ancor più, le prove orali
non soddisfano ai requisiti di una formalizzazione rigorosa del processo
valutativo).
- Ci sono,
però, anche approcci diversi al tema dell’oggettività, approcci, diciamo così, più soft, che negano, cioè, la possibilità
di un’oggettività assoluta, affermando invece che si tratta di una sorta
di ideale regolativi, di una meta ci tendere in un cammino autocorrettivo, fato di riaggiustamenti
costanti. Mentre la prospettiva docimologia rimanda alla matrice comportamentistica, questa seconda prospettiva rimanda
al cognitivismo, corrente che sottolinea
i fattori cognitivi che entrano in gioco nel processo valutativo (inteso
non come rilevazione di un valore, ma come atto decisionale fondato su criteri
di ragionevolezza pedagogica).
Particolarmente interessanti sono le riflessioni sui biases,
cioè sugli errori di ragionamento in cui più frequentemente
incorrono gli insegnanti nel valutare.
Abbastanza noto è il cosiddetto effetto Pigmalione, o meccanismo della profezia che si
autoadempie: le aspettative,
positive o negative che siano, sui singoli o anche sulle classi determinano
strategie, atteggiamenti, comunicazioni (per lo più paraverbali o non verbali)
che rendono più probabile la loro concretizzazione (attendersi scarsi risultati
da qualcuno, anche per il solo fatto che questi percepisce la nostra sfiducia
e tende ad essere di conseguenza meno motivato, rende più probabili i risultati
attesi). Sufficientemente conosciuto è anche l’effetto alone, che
porta ad estendere il giudizio, positivo o negativo,
da un ambito ad altri che con il primo non hanno attinenza (il giudizio
sul rendimento può scivolare sulle qualità della persona, ma anche viceversa;
più spesso il giudizio positivo/negativo su alcune qualità dell’alunno,
per esempio quelle espositive, può interferire con quello relativo a qualità
che con le prime non sono necessariamente connesse, per esempio quelle logico-critiche).
Meno noti, ma non meno interessanti, sono altri errori.
L’autoconvalida è un meccanismo distorsivo
per cui un docente tende, nelle successive valutazioni,
a non discostarsi troppo dalle prime (alcuni alunni, nell’assemblea citata
sopra, lamentavano che i primi voti assegnati da alcuni docenti tendono
poi ad essere confermati, e che alcuni docenti tendono a far cadere sempre
in piedi gli alunni “bravi” – non danno voti troppo negativi di fronte a
prove scadenti –, mentre sono restii ad attribuire voti brillanti ad alunni
meno bravi, anche a fronte di prove pienamente positive).
Si parla, invece, di accentuazione in presenza
della tendenza ad accentuare le differenze fra gruppi di alunni (i classici
bravi e meno bravi), attenuando, invece, le differenze fra gli alunni che
appartengono ad un medesimo gruppo.
L’errore fondamentale di attribuzione, infine,
consiste nel sopravvalutare, come fattore che determina successi o insuccessi
scolastici, le capacità intrinseche degli alunni, sottovalutando l’incidenza
dei fattori ambientali legati alla famiglia, alle dinamiche del gruppo classe,
alle dinamiche docenti-alunni, e così via.
E’ importante sottolineare che gli studiosi dei
biases nel contesto della valutazione non intendono
affatto dimostrare che i docenti si dividono in due categorie, quelli soggetti
a tali errori e quelli immuni: in tali errori tutti possono incorrere, ed
è compito che spetta a ciascuno la costante revisione critica dei processi
mentali che determinano la valutazione.
Mi sembra assai interessante “contaminare” tale prospettiva con quella psico-dinamica,
cioè cercare di gettare un po’ di luce sulle radici
di tali errori distorsivi. Una radice importante è legata alle dinamiche dell’autostima, nelle quali sono coinvolti non
solo gli alunni, ma anche i docenti. Nell’immaginario del docente penso
sia spesso assai presente il “fantasma” del discredito professionale, la
paura di non essere all’altezza, l’ansia di risultare inadeguato, soprattutto di fronte ai compiti
fondamentali dello spiegare e del valutare. Tutto ciò condiziona i processi
della valutazione. Mi è spesso capitato di domandarmi come mai un docente,
nella maggior parte dei casi, tema di più di incorrere nell’errore di
sopravvalutare gli alunni piuttosto che in quello di sottovalutarli. E di
domandarmi anche come mai difficilmente si sia disposti ad attribuire (almeno
nella scuola superiore), anche ad alunni assai bravi, il massimo dei voti,
mentre all'Esame di Stato ci si aspetta che in ogni classe ci sia almeno
un sparuto gruppo di candidati al punteggio massimo. Queste domande, come
molte altre, analoghe, potrebbero trovare qualche elemento di risposta in
un’analisi del processo valutativo che si allarghi dagli elementi tecnico-docimologici a quelli connessi
con la complessità psico-dinamica che caratterizza
lo scenario dell’essere docenti.
Un’ultima riflessione: potrebbe essere assai feconda anche un’analisi dell’incidenza
dei fattori di ordine socio-culturale, che determinano dei veri e
propri filoni di tradizione e costume nel valutare. I docenti, consapevolmente
o no, spesso si inseriscono in un filone, e magari
giustificano l’essere restii ad attribuire voti molto alti o molto bassi
rifacendosi a qualche insegnante del passato che hanno assunto come modello.
Inciso scherzono, sul tema del peso delle tradizioni: ci sono modi di dire
talmente consolidati da nascondere con successo errori anche grossolani
ad essi sottesi. Si dice, per esempio, che un docente poco incline ad assegnare
voti alti usi un "metro stretto", senza osservare che più
il metro è stretto, più la misura (cioè il voto, anche
se questo non è mai una misura) è numericamente elevata.
La tradizione ed i
paradigmi contano: basti pensare, per esempio, alla tradizione delle “pagelle”
nel contesto extra-scolastico, per esempio a
quelle calcistiche, che hanno una propria scala di valori, per cui un
giocatore che ha disputato una partita unanimemente giudicata buona riceve
il voto 7, ed un 8 rimanda ad una prova veramente brillante (per inciso:
a riprova di quanto sia “sofferta” la posizione di chi riceve un voto
da altri, si può osservare come diversi calciatori, a quanto raccontano,
siano assai sensibili alle pagelle pubblicate sui quotidiani sportivi
il giorno successivo alle partite disputate).
- Il computer
e le TIC possono aiutarci in questa sorta di esodo
biblico verso la terra promessa dell’oggettività? Sicuramente sì, e per
diversi aspetti. Non solo, infatti, permettono di somministrare e di misurare
in tempo reale prove oggettive di profitto (o test strutturati), ma consentono
anche di creare vere e proprie banche dati, nelle quali registrare le diverse
prove, individuando anche i quesiti che si sono rivelati a-posteriori troppo
facili, troppo difficili, o inversamente selettivi (i quesiti che penalizzano
le persone più riflessive). Possono aiutarci a costruire una memoria storica
della nostra esperienza valutativa e ad analizzare dinamiche e tendenze,
anche in una prospettiva di confronto fra docenti (interessante è l’operazione
di trasporre nella scala da 1 a 10 le scale di fatto diverse adottate spesso
dai docenti, scale che vanno, magari, da 4 ad 8 e che prevedono gradi intermedi
fra i punti interi). Possono, infine, consentirci, attraverso forum e gruppi
di discussione, di scambiare con colleghi della medesima materia riflessioni
e materiali che contribuiscono in misura considerevole alla crescita professionale.
- L’aspetto
più spinoso, per riprendere il titolo, del processo valutativo mi pare,
tuttavia, un altro, vale a dire quello relativo all’oggetto
della valutazione. Per diversi motivi.
Cosa valutiamo? Sicuramente non la persona, ciascun docente lo ammetterebbe.
Eppure in diversi casi, a torto o a ragione, gli alunni lamentano una disistima
dei docenti legata al loro scarso rendimento scolastico, e questo è un aspetto
problematico di non poco conto (un 2 ha un effetto di
gran lunga meno demotivante di un vissuto di disistima).
Ed ancora: la valutazione spesso fluttua in una sorta di limbo sospeso
fra la performance dell’alunno nella prova e le sue competenze/capacità
strutturalmente intese. Detto in termini piuttosto rozzi, ma efficaci: i
che misura una prova costellata di risposte “poco intelligenti” rimanda
ad un alunno con debole intelligenza nella materia (dico “nella materia”
ricordando che oggi si parla di “intelligenze multiple”, e non di “intelligenza”
tout court)?
E’ abbastanza ovvio che la valutazione non si possa ridurre alla performance
per sé presa, e che da questa, attraverso processi inferenziali,
si debbano, almeno in parte, ricostruire meccanismi mentali che hanno determinato
successi ed insuccessi, per individuare ostacoli nel processo di apprendimento (ostacoli epistemologici, li si potrebbe
definire usando un’espressione cara a Bachelard),
e soprattutto per diagnosticare in quali tempi ed in che misura tali ostacoli
siano verosimilmente superabili (o, forse, in certi casi, aggirabili). Tuttavia
ciò pone problemi considerevoli. Nei confronti degli alunni, ed ancor
più delle famiglie.
Per una serie di motivi culturali, oggi un genitore accetta di buon grado
di sentirsi dire che il figlio non è tagliato per la matematica o la fisica,
recalcitra di più se si sente dire che non è tagliato per la lingua italiana,
la storia dell’arte o la psicologia. Accetta anche (non
sempre, però, di buon grado) di sentirsi dire che l’alunno è poco
impegnato e studia con discontinuità e scarso metodo, o, anche, ha difficoltà
espositive (spesso i genitori si lamentano del fatto che il figlio sia “penalizzato”
dalle difficoltà espositive), mentre recalcitra di fronte ad un giudizio
che parla di difficoltà strutturali, di debolezza in una materia, di fattori
che vanificano o rendono scarsamente produttivo uno studio anche continuo
e metodico. Il primo giudizio viene vissuto,
infatti, come contingente: mio figlio (uso il maschile perché è abbastanza
provato che le alunne investano più tempo ed energie nella scuola, ed abbiano
quindi un rendimento mediamente migliore; è stato detto, ma questo lo propongo
come provocazione scherzosa, che ciò accade in quanto la scuola, tutto sommato,
esalta caratteristiche che sono maggiormente pronunciate nelle ragazze che
nei ragazzi – attenzione prolungata, autocontrollo motorio, capacità espositive,
diligenza ed organizzazione -) è lazzarone o disorganizzato, può pensare
nel primo caso un genitore, ma quando vorrà, riuscirà; nel secondo caso
il genitore vivrà invece la valutazione come giudizio irrevocabile, come
sentenza inappellabile.
Un genitore che lamenti la disorganizzazione o il disimpegno del figlio
può sempre riservarsi una velata punta di compiacimento (come dire: quando
si deciderà ad impegnarsi, verrà il momento del riscatto), mentre ben difficilmente
sarà disposto a parlare di lentezza o ritardo nell’apprendimento (a meno
che ci sia una legittimazione culturale di tale lentezza, per
cui “si può” andar male in matematica, in quanto da che mondo è mondo
c’è un sacco di gente che non è tagliata per la matematica).
Ma il problema non è, ovviamente, solo nella sofferenza dei genitori
e degli alunni: lo stesso docente, chiamato ad orientare, non può sfuggire
al dubbio, ansiogeno ma salutare, di poter sbagliare nell’inferenza e soprattutto
nella diagnosi sugli esiti degli studi futuri in un certo ambito. Un esempio per tutti: dietro apparenti errori logici si possono
celare difficoltà più linguistiche che logiche (del tipo: l’alunno sbaglia
nella risoluzione di un problema non per scarsa comprensione dei meccanismi
risolutivi, ma perché non ha compreso il testo), e viceversa.
Per concludere
con qualche considerazione scontata (ma non troppo): obiettività nella
valutazione e capacità di estrapolare conclusioni prognostiche
corrette dalla valutazione stessa sono qualità inerenti alla professionalità
docente, che non si smette mai di affinare. Essere docenti professionalmente
preparati significa guadagnare “sul campo”, anche attraverso la disponibilità
a rimettere in discussione prassi e meccanismi valutativi consolidati, sempre
qualcosa in più, nella direzione di quella finezza pedagogica necessaria per
essere buoni valutatori. Utilizzando due famosi
concetti pascaliani (in un modo che farebbe inorridire Pascal) si potrebbe,
quindi, affermare che un buon valutatore deve saper innestare lo spirito di
finezza sullo spirito geometrico, avvalendosi delle risorse dell'uno e dell'altro.
Massimo
Dei Cas
Via Morano, 51 23011 Ardenno (SO)
Tel.: 0342661285 E-mail: massimo@waltellina.com