Il pensiero a riposo - Massimo Dei Cas

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PAROLA E LINGUAGGIO

Non ci disfiamo mai interamente, soprattutto nelle cose più serie, del bambino che siamo stati. Così la magia del linguaggio si conserva nel suo uso apotropaico, nella paura che abbiamo delle parole e del loro potere evocativo, nell’ingenua quanto irriflessa convinzione che le parole facciano le cose e che basti parlare di qualcosa ed inventare nuovi nomi per modificare o creare la realtà, nell’aspra contesa che si scatena per il possesso delle parole, in nome del loro vero significato, quando basterebbe coniarne di nuove, tante quante sono le accezioni sulle quali disputiamo.

All'inizio sono le parole a sedurre. Poi si alllestisce attorno un corredo di concetti, e si litiga per stabilire quale meglio si attagli alle parole. Ma la magia delle parole è senza concetto.

La funzione principale del linguaggio è quella di stringere alleanze ed intrecciare complicità (come lo spulciarsi delle scimmie).

Le parole sono pensieri archiviati, e di rado si sente il bisogno di rispolverarne le pratiche.

Riusciamo a fare a meno delle parole tanto quanto riusciamo a fare a meno dei vestiti.

Segno inequivocabile di potere è l'opacità della parola.

La potenza delle parole è proporzionale alla loro opacità mascherata da chiarezza.

Il rapporto con le parole divide in due l'umanità. Vi sono persone che tendono a considerare più forti le parole che più sono ripetute. Ve ne sono altri che, invece, considerano inflazionate ed evanescenti le parole sulla bocca di tutti. E questi ultimi sono una minoranza.

I pensieri evocano le parole, le parole danno forma ai penseri.

Le parole hanno segrete complicità e tangenze rivelatrici. Così "affermare" significa insieme "dire" e "far valere", "imporre". In questa duplicità sta l'originario sguardo obliquo di ogni linguaggio.

Le parole sono come i vestiti, abbiamo quasi sempre bisogno di indossarne qualcuno.

Le parole sono piccole ruffiane e cialtrone, ma non ci decidiamo mai a mandarle via.

Per dire quello che davvero pensiamo dovremmo pensare qualcosa in modo nitido, mentre il più delle volte cominciamo a pensarlo mentre lo diciamo.

La lingua batte dove il niente duole.

Le parole sovrastano le nostre velleità di controllo. Così, nel cuore stesso del regno del politically correct, i discorsi sulle persone disabili, si scoprono espressioni squallide come "ad alto funzionamento", degne più di una caldaia che di una persona.

La magia del linguaggio genera l'illusione che basti dire per dire qualcosa.

Ogni epoca è caratterizzata anche dall'orizzonte del limite che immagina: così nel Medio-Evo valeva il monito "ricordati che devi morire", mentre oggi è sottinteso il "ricordati che devi parlare", perché proprio il linguaggio appare come l'orizzonte di limite dei nostri tempi.

Combattiamo ancora per le parole, perché il loro luccichìo rinnova un incanto infantile.

Ci sono parole che rivelano pensieri e parole che nascondono la mancanza di pensieri.

L'eclisse di talune parole, come guida telefonica, è un segno del progresso tecnologico; nulla come l'eclisse del termine scusa è invece sintomo del regresso della civiltà.

Parola umana è quella che si disperde nel gioco infinito delle interpretazioni, senza la possibilità di recuperare l'origine del senso, neppure nel parlante. Parola divina è quella che le raccoglie in una possibile unità di cui non indoviniamo il disegno.

Per una possibile categorizzazione delle epoche della civiltà umana: dal primato dell'oralità siamo passati alla civiltà della parola scritta; il suo tramonto, già in atto, porterà all'avvento del primato dell'iconicità, cioè della comunicazione per gesti, scenari, immagini.

Il rapporto del linguaggio con la veritù è piuttosto accidentale e sporadico. Per lo più pone in atto riti e pratiche si propiziazione, rassicurazione, sedazione e seduzione.

Ad essere di troppo sono i silenzi molto più delle parole.

Le parole solo raramente sono neutrali: in genere sono piene di teoria, giudizi, pregiudizi, idiosincrasie, attrazioni e repulsioni.

La nostra abilità di rétori la esercitiamo innanzitutto verso noi stessi, ed è piuttosto efficece: per questo ci capita spesso di dire "Mi sono detto..."

Prima ancora che l'accadere delle cose, è il parlarne che le rende possibili.

L'atrocità dei fatti ci colpisce molto più di quella delle parole; eppure queste sono le avvisaglie, solo in apparenza inoffensive, di quelli.

Le parole nascondono, ma nascondono malamente. Se chiamiamo "meno fortunati" i poveri e gli emarginati vorremmo prendere le distanze dal pensiero che lo siano per loro colpa, ma in realtà prendiamo le distanze dal pensiero che lo siano per nostra colpa (la loro sfortuna potrebbe essere infatti la mancanza delle nostre stesse opportunità).

L'ammiccamento un po' cialtrone dello scrittore al lettore, a volerlo tradurre in parole, suonerebbe un po' così: "Ci sono arrivato un po' prima; ci saresti potuto arrivare anche tu."

Quando la parola sequestra il pensiero, lo fa senza possibilità di riscatto.

Le frasi fatte sono quasi sempre frasi sfatte.

Con il linguaggio si può mentire, ma il linguaggio, di per sé, non mente e svela, all'orecchio attento, le intime convinzioni di chi lo usa.

Possiamo fare molte cose per caso, non però parlare o usare le parole che usiamo.

La torre di Babele portò alla moltiplicazione delle lingue ed all'incomprensione fra gli uomini. Un linguaggio, però, rimase integro e compreso da tutti, quello dell'interesse.

Se la parola serve per informare, serve anche, ed altrettanto, per deformare.

Le frasi mentono. Le parole mai.

Nel loro rapporto con il linguaggio gli uomini difficilmente riescono a conservare una posizione equilibrata. Oscillano, infatti, dalla convinzione di poter praticare una illimitata ingegneria linguistica al servizio di esigenze burocratiche, corporative di correttezza politica, alla convinzione che il linguaggio sia una sorta di potenza cosmico-storica che dispone dell'uomo e dei suoi orizzonti di valori e significati.

L'ipocrisia mina alla radice la salute delle parole, senza ucciderle: le rende gracili, malaticce, diafane.

Cambiare discorso a volte è ipocrisia, a volte pietà.

L'evoluzione e le evoluzioni del linguaggio non mancano di proporci lati comici. Essere allettati, per esempio, può diventare una prospettiva senile e niente affatto allettante.

Stare di fronte ad una persona (avvertita come persona) senza parlare evoca lo stesso imbarazzo dello stare senza vestiti.

Di solito pensiamo che parlare significhi comunicare qualcosa che appartiene alla realtà, ma nel contempo consideriamo reale tutto quanto ci permette di parlarne (indefinitamente).

Le parole sono come le monete, più ne circolano, meno valgono.

Quel tanto (che è tanto) di infantile che vive nell'adulto si manifesta sopratutto nella battaglia per le parole, per la loro giustezza, per la loro verità. Come se le parole fossero risorse naturali e finite, come se non bastasse moltiplicarle alla bisogna quando si lotta per averne qualcuna per sé.

Le frasi fatte rivelano un pensiero sfatto.

Solo un pensiero ricco può davvero esprimersi in parole povere.

Durante l'epidemia mondiale del 2020 non era raro ascoltare l'espressione "scovare i positivi al virus". Non serve una riflessione approfondita per comprendere che è il nazista nascosto in ciascuno a parlare, e non parla tedesco.

Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che tace.

Vi fu un tempo, ed è quasi incredibile pensarlo, in cui si avvertiva il dovere della pietas e della cura verso il linguaggio. Oggi lo si considera alla stregua di uno strumento, un cacciavite o un dispositivo wireless, di cui sappiamo già che usciranno nuove versioni ed aggiornamenti.

Cosa c'è di tanto importante, addirittura cruciale ed angosciante, nel concludere un discorso, tanto da farci cercare con affanno la giusta parola ed il giusto accento, così nella comunicazione come nella musica, quasi che un chiusura infelice compormetta tutto?

Oggetto delle più grottesche contese, sfilacciate, imbolsite, irriconoscibili, sempre più parole perdono via via credibilità e presa sulla coscienza umana, in un epocale attacco al linguaggio che va di pari passo con l'attacco ai vestiti.

"Omofobia" è una parola che forse più chiaramente di altre esprime il mito del mondo rovesciato, ovvero del rovescio del nascosto rispetto a ciò che si mostra. Quindi disprezzo ed avversione nasconderebbero paura, in questo caso verso l'omosessualità altrui ed anche quella (latente) propria. Questo mito mette in scena una gigantesca assoluzione del negativo, perché analogamente si dice ed addirittura pensa che prepotenza sia timidezza latente, arroganza insicurezza latente, e così via di questo passo. Un passo che non conduce da nessuna parte, perché è davvero curioso non vedere che disprezzo, prepotenza ed arroganza non sono altro che disprezzo, prepotenza arroganza, così in ciò che si vede come in ciò che non si vede.

A stare attenti alle parole si capisce molto del mutare dei tempi. Un tempo, per esempio, la bellezza era seducente. Ora è seduttiva.

Le parole hanno il potere di deformare grottescamente la realtà; si parla, ad esempio, di "contraddizioni" di fronte a bestialità e disumanità in un contesto sociale ed economico.

Buona parte del linguaggio è gioco, rito, ossessione.

L'uso eccessivo ed improprio delle parole le condanna ad una inesorabile svalutazione. Ciò non accade per la parola "grazie".

La parola non ha solo un suono, ma anche una risonanza, che dipende da tutto ciò che la veicola e la circonda.

Quando si ha poco da dire, è bene dirlo lentamente.

C'è spesso una profonda quanto inconsapevole ironia nel linguaggio. Come quando diciamo "osservare" intendendo il semplice stare a guardare, ma anche l'ottemperare attivamente a qualcosa ("osservare le leggi").

Posso dire, dunque debbo dire, dunque ho qualcosa di importante da dire: ecco il sillogismo nella civiltà dei social.

Il linguaggio non è servo fedele, ma, prima o poi, tradisce i pensieri che neppure a noi stessi sono manifesti. Così, leggere di una "strage mancata", in luogo del decente "sventata", fa intravvedere la delusione per un'emozione che è stata assai più tenue di quanto avrebbe potuto essere.

Velocizzazione e crescita esponenziale delle comunicazioni generano oggi un effetto impazzimento che non ha niente a che fare con l'antico e profetico significato della follia, ma rimanda solo ad un rincorrersi di parole che descrivono circoli ossessivi dentro uno spazio privo di orizzonti.

Raramente ci si pente di un silenzio, a meno che si tratti di un silenzio che nasconde un pentimento.

Profonda esperienza di verità sarebbe riuscire a vivere l'esperienza come un film muto. Allora, dissipata la nebbia soporifera delle parole, apparirebbe finalmente qualcosa. i sordi sono forse gli ultimi filosofi.

Dire tutto significa già anche dire il contrario di tutto.

Un tempo parlare significava talvolta tradire se stessi; oggi significa più spesso tradire il linguaggio.

I pensieri più inconfessabili sono maldestramente nascosti dalle parole. Così l'espressione "essere in forma" sottintende che i non esserlo equivalga ad essere deformi (od informi).

Affermare che la comunicazione di massa sia un dosaggio più o meno allettante di allarmi, pettegolezzi, volgarità e pour-parler può sembrare snobismo di cattiva lega, ma purtroppo non è lontano dal vero.

La parola è oggi, per noi, come l'aria ed il cibo. Ogni giorno avvertiamo l'insopprimibile bisogno di parlare (non di comunicare). Ogni giorno ci viene offerta la sterminata possibilità di parlare di parlare di tutto e tutti.

Ci sono due stili di comunicazione, quello in cui le cose da dire sono sempre un po' avanti rispetto alle parole e quello nel quale le cose da dire non arrivano mai.

L'infanzia ci abbandona quando comprendiamo che non esiste una sola parola per ogni cosa.

Dalla concezione superstiziosa del linguaggio deriva la convinzione, diffusissima, che nominare qualcosa significhi disimpegnarsene, o possederla, o collocarsi su un qualche piano di superiorità rispetto ad essa.

E' incredibile (cioè credibilissimo) quanto si usino a cuor leggero espressioni agghiaccianti. Per esempio: "una vita che merita di essere vissuta". E se una vita non meritasse di essere vissuta, quali conseguenze dovremmo trarne? (cioè: quali conseguenze qualcuno prima o poi trarrà?).

Inesauribile è l'invenzione di imbarazzanti parole per coprire dignitosi silenzi.

Due visioni incommensurabili dell'uomo e della comunicazione: c'è chi vorrebbe scovare al fondo di ogni problema un problema di comunicazione e chi vorrebbe scovare al fondo di ogni problema di comunicazione un altro problema.

Siccome parliamo del mondo, non ci sembra di essere mondo (o in quel mondo).

La grammatica si rifiuta di accedere al disincanto radicale ed al nulla, il linguaggio conserva magicamente la presenza eterna di ogni cosa: quando diciamo che S non è più, diciamo insieme l’esistenza di S come soggetto di cui diciamo l’inesistenza.

Le parole sono talismani, tabù, fedeli compagne, ultimo sostegno quando vacilliamo sul baratro del nulla.

L'insincerità è molto più in ciò che non si dice piuttosto che in ciò che si dice.

Le frasi fatte sono pensieri sfatti.

Le parole, come le persone, vivono della propria reputazione, di consenso o di biasimo. Per questo le ricerchiamo, vogliamo farle nostre, o le rifuggiamo. Ed alla luce di questa reputazione pensiamo di poterle poi anche conoscere.

Scrivere è come truccarsi, cioè mostrare di sé un'immagine più bella, o anche solo più decente.

Ad una singolare pena sono condannati quanti non riescono ad esprimere una lode senza risultare, più o meno velatamente, offensivi.
Cialtrona più di ogni altra cosa è la lode: chi loda affetta alla deferenza, ma in realtà si pone come giudice.

Platone disse che la musica è tutta l'educazione, intendendo, forse, che consente di comprendere come l'accento non sia mai accidente, ma sostanza.

Parlare serve, innanzitutto, a rivestire la vergogna che siamo.

Se di una cosa si può parlare, esiste.

Paradosso del linguaggio è che realizza contemporaneamente un approccio ed una presa di distanza dalla realtà.

Si misura la prepotenza del male dal timore che incute. E si misura questo timore dal tabù linguistico che ci vieta di nominarlo. Così nelle più tragiche manifestazioni del male molto raramente sentiamo parlare di malvagità, molto spesso, invece, di follia. Che è tutt'altra cosa.

Secondo un famoso assioma aristotelico, la natura ha orrore del vuoto. La stessa cosa si può dire della comunicazione.

Raramente parliamo per farci capire; molto più spesso per farci notare ed apprezzare.

Le parole promettono di dire, ma la promessa molto spesso non viene onorata.

La parola è, innanzitutto, rassicurazione (magica).

La lentezza della parola è al servizio del pensiero o della sua pochezza.

L'uomo contemporaneo non è affascinato semplicemente dal parlare, ma dal parlare interminabilmente.

Molti discorsi appaiono come una promessa, sempre differita, di senso, un'anticamera del profondo che non introduce a nulla.

La parola tutto può suscitare, fuorché il sentimento (ma suscita, e molto vivida, l'impressione del sentimento).

Nessuna parola è innocente: con gli uomini sono state cacciate dal paradiso terrestre le loro parole.

Il non-detto che spesso decide del senso nella comunicazione è, molto più spesso che l’implicito, l’omesso.

Serietà è soppesare nelle parole l'eccesso che si affaccia sulla realtà.

Si afferma che lo scritto è più freddo a fronte del calore della parola parlata: in realtà è solo più onesto.

Dire pane al pane e vino al vino non è schiettezza, ma profonda solitudine, nella quale nasce il bisogno di parlare perfino alle cose.

L'ipertrofia narcisistica del linguaggio mette in crisi la distinzione fra testo e contesto, in quanto il contesto stesso viene trattato come testo.

Oggi il peso relativo di comunicazione e meta comunicazione è nettamente sbilanciato sul lato della seconda, per cui talora si perde letteralmente la nozione chiara o anche solo la notizia di ciò che è davvero all’origine della comunicazione.

Alcune parole, nella loro deriva, sono rivelatrici dello spirito dei nostri tempi. Così è per "riforma", che in origine significava "ritorno alla forma propria, all'origine", ora invece "mutamento progressivo della forma"; così anche per "rivoluzione", in origine "ritorno all'origine dopo un moto circolare", ora "eversione radicale dello stato di cose esistente". E' ciò che, forse, si riassume bene nel concetto di "sradicamento". Il tempo si è svincolato dal suo centro di gravitazione ed è proiettato in una direzione che, per nostra insipienza, chiamiamo "avanti".

Le parole sono spesso incomprese, specie nel loro sarcasmo. Così diciamo "realizzarsi", come se chi raggiunge un traguardo importante sia più reale di qualsivoglia altra persona.

Quando non troviamo le parole sono spesso le parole a trovare noi.

Le parole fungono spesso da paravento della nostra ignoranza, rispetto alla quale ci traggono d'impaccio, come se funzionassero da cartelli che segnalano un "non plus ultra", non oltre, nella ricerca, nel pensiero.

Il linguaggio si concede le sue libertà, nella forma dell'involontaria ironia. Come quando si dice "Non perché è mio figlio, ma è davvero un ottimo ragazzo", ed a dirlo è un lestofante.

Alcune derive linguistiche sono semplicemente comiche; così mentre un tempo ci si figurava un tipo allettato come attratto da qualche bene invitante, oggi lo si pensa tristemente inchiodato da qualche malattia ad un letto.

Il crepuscolo del congiuntivo è segno dell'indebolimento della distinzione fra soggettivo ed oggettivo (o della sua rilevanza).

Dalla parola rivelativa alla parola sedativa si consuma la lunga e secolare marcia di allontanamento del linguaggio dalla verità.

Vale per la realtà ciò che si dice valga per il sesso: più se ne parla, meno la si pratica.

Ciò di cui diciamo "fermo restando" lo abbiamo in realtà già demolito. Non finisce mai di stupire la potenza dissimulatrice delle parole.

"Ma" è la versione più breve del cancellino: cancella tutto quanto lo precede.

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