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I TEMI FONDAMENTALI DELL’OPERA ESSERE E TEMPO (1927) DI M. HEIDEGGER (1889-1975)

L’opera di Heidegger vuole essere una ricerca ontologica, cioè centrata sulla domanda che cos’è l’essere? Da questa domanda ha preso le mosse la filosofia occidentale, fraintendendone però, fin da Platone, il senso, in quanto l’essere è stato concepito come ente, causa e fondamento di tutti gli altri enti (l’idea platonica, la sostanza aristotelica, il Dio cristiano, definito da S. Tommaso ipsum esse subsistens). La filosofia che fraintende o dimentica il senso dell’essere è chiamata da Heidegger metafisica. Si tratta dunque di ripensare radicalmente il problema, superando l’errore metafisico:  l’essere non è un ente (vi è una differenza ontologica fra essere ed ente), anche se è sempre l’essere di un ente. Il termine essere va pensato come verbo, non come sostantivo. Ente è tutto ciò che può diventare oggetto di una percezione o di una conoscenza. L’essere dell’ente è ciò che lo sottrae al nulla e lo presenta all’uomo come ente che ha sempre per lui un qualche significato. Successivamente ad Essere e tempo Heidegger paragonerà l’essere all’illuminazione: come la luce, pur non essendo vista direttamente, fa essere al mio occhio l’oggetto visto e me lo fa vedere sotto una certa luce, cioè così come mi si presenta, con un certo significato piuttosto che altri, similmente l’essere, che non può diventare oggetto della mia conoscenza (altrimenti sarebbe l’ente), è ciò che fa essere l’ente e me lo presenta nei suoi significati. Tornando ad Essere e tempo, si deve dire che l’opera si configura come ricerca del senso dell’essere.   

La ricerca ontologica deve partire da un’analisi dell’uomo (analitica esistenziale), in quanto questi è l’unico ente che si pone il problema dell’essere o, più in generale, il problema del significato degli enti. L’uomo, infatti, non è un ente semplicemente presente, non ha un posto predeterminato nel contesto del mondo, non ha un’essenza, cioè una natura immutabile, ma deve scegliere il suo posto nel mondo, deve scegliere che cosa essere. Mentre gli altri enti semplicemente sono, l’uomo esiste: esistere significa ex-sistere, cioè stare fuori, non avere un posto assegnato da una natura immutabile. L’uomo è sempre in gioco, cioè deve scegliere e nella scelta ne va del suo essere, cioè si decide che cosa egli è. L’uomo può scegliere, per esempio, di essere l’ente che conserva o distrugge, saccheggiandolo, il mondo. Heidegger non usa il sostantivo uomo, ma l’infinito sostantivato esserci, per sottolineare che l’uomo è sempre collocato, gettato in una situazione che non ha scelto (nessuno sceglie il proprio tempo, i propri genitori, la propria terra, e così via); Heidegger afferma anche che l’uomo è gettato nel mondo. L’analitica esistenziale di Heidegger si propone di cogliere l’uomo così come egli si dà nella sua medietà quotidiana, così come per lo più è. Da tale analitica è nata l’interpretazione di Heidegger come filosofo esistenzialista, interpretazione che egli però rifiuterà, in quanto centrale nella sua ricerca è l’essere, non l’esserci (cioè l’uomo).   

L’analitica esistenziale vuole cogliere i modi fondamentali di essere dell’esserci, cioè gli esistenziali. Il primo fra essi è la cura, cioè l’essere occupato in qualche cosa e preoccupato di qualche cosa. Nessun esserci è puro spettatore di fronte al mondo: il rapporto primario con il mondo è affettivo-emotivo. Il mondo è l’orizzonte degli enti rispetto ai quali ho o non ho progetti, e che mi si presentano come utili, inutili o dannosi. La conoscenza non è, al contrario di quanto pensa buona parte della tradizione filosofica, il rapporto più importante fra l’uomo e il mondo. L’esserci è dunque originariamente essere-nel-mondo, cioè stare, sentirsi, trovarsi nel mondo: stare, sentirsi trovarsi bene o male, a proprio agio o disagio, e così via. A questo punto, però, l’analitica esistenziale evidenzia due modi fondamentali di essere nel mondo: l’inautenticità, o deiezione, e l’autenticità, o essere per la morte. Tale distinzione non ha alcuna valenza morale: l’esistenza autentica non vale più di quella inautentica, l’uomo autentico non è più uomo rispetto a quello inautentico: si tratta solo di due modi fondamentali di esistere, che, riassumendo e semplificando molto, si potrebbero definire consapevolezza e negazione della morte, che è uno sfociare nel nulla.  

L’esserci è per lo più inautentico. L’esistenza inautentica è caratterizzata da uno scegliere a partire dagli altri, confrontandosi e commisurandosi con gli altri, sia che si voglia scegliere come gli altri, sia che ci si voglia distinguere dagli altri, sia che gli altri siano la massa, sia che gli altri siano un ristretto gruppo. Il significato dell’aggettivo inautentico deve infatti essere colto etimologicamente: inautentico è colui che non è se stesso, ma si appiattisce sul mondo, cioè ripete scelte già operate e significati già dati ed è interamente assorbito nell’operare e nel progettare. Nell’inautenticità domina il si, cioè il si pensa, si dice, si fa: il si sgrava l’esserci dal peso della scelta, permettendogli di assumere scelte già fatte. L’esserci, pur non potendo mai diventare cosa, decade, come se fosse una cosa semplicemente data: è questa la deiezione. Le modalità che caratterizzano l’esistenza inautentica sono la chiacchiera, la curiosità e l’equivoco. Nell’esistenza inautentica il passato, il presente ed il futuro vengono vissuti in rapporto ai nostri progetti, a ciò che possiamo fare, a ciò che abbiamo da fare, a ciò che potremo ricavare da nostro fare (successo-insuccesso). La chiacchiera è il dominio del si dice, in cui ciò che si afferma non si fonda su una effettiva esperienza di ciò di cui si parla, ma su discorsi già prodotti da altri. La chiacchiera ripete questi discorsi; nella chiacchiera ci si convince che le cose stanno in un certo modo perché così si dice, ed una affermazione viene conside-rata tanto più vera quanto più viene ripetuta. La curiosità è l’interessarsi di tutto e di nulla, il cercare sempre un nuovo centro d’interesse per l’incapacità di soffermarsi presso le cose e di lasciare che queste mostrino il proprio significato. L’equivoco è la mancanza di chiarezza, rispetto a se stessi, agli altri ed al mondo: nell’equivoco tutto viene avvolto in una sorta di nebulosa vaghezza. Esso nasce dall’incapacità di soffermarci presso noi stessi e di cogliere ciò che siamo, al di là del si (si dice, si pensa). 

L’esistenza autentica è caratterizzata da uno scegliere a partire da se stessi, cioè scegliendo le possibilità più proprie. Essa dunque sceglie nella solitudine: l’esserci, infatti, è posto come solo di fronte a se stesso. In secondo luogo l’esistenza inautentica scopre nella morte la possibilità più propria dell’uomo, possibilità cioè che è di tutti gli uomini in quanto tali. L’uomo è un ente radicalmente finito, cioè sospeso fra due nulla, il nulla da cui proviene ed il nulla che lo attente. Anche tutto ciò che l’uomo progetta e fa è radicalmente finito. La lucida consapevolezza di ciò è l’angoscia. Mentre la paura è sempre paura di qualcosa, di ciò che minaccia i miei progetti, l’angoscia è angoscia di nulla, cioè del nulla. Essa strappa l’uomo dall’appiattimento sul mondo, determina un distacco emotivo fra ciò che egli fa e ciò che sente di essere: l’uomo dunque, pur continuando ad operare nel mondo, non è più interamente assorbito in questo operare, perché ha ben presente ciò che l’uomo inautentico nega, il nulla che lo attende. L’autenticità non è fuga dal mondo, negazione della vita, ma fedeltà rispetto alla nostra finitezza ed al contesto nel quale siamo gettati. Nell’esistenza autentica il presente è l’istante, in cui colgo il passato da cui provengo e scelgo il futuro che mi attende, cioè scelgo la mia radicale finitezza (questo è il significato della decisione anticipatrice della morte o essere-per-la-morte).  

 Note di bilancio e prospettive ulteriori. Essere e tempo è un’opera incompiuta, che non ha portato a termina il compito che Heidegger si è proposto. Infatti ciò che emerge dall’opera è che l’essere degli enti si riduce, nell’esistenza inautentica, al loro essere utilizzabile, al loro servire a qualcosa. Il significato delle cose, in questa dimensione, è compreso quando si sa che cosa se ne può fare, quando si inscrivono in un progetto possibile. Tutto ciò, però, non ci dice ancora che cosa sia l’essere, ma solo che cosa è l’essere delle cose nell’esistenza inautentica e che cos’è l’essere dell’uomo inautentico ed autentico. In altre parole, l’essere delle cose si mostra, nel nostro tempo, così; rimane però aperta la domanda: perché ciò accade? Perché l’essere delle cose è questo, piuttosto che un altro? Heidegger ritornerà su questo problema, prospettando la risposta che l’essere è evento, accadere, destino, aprirsi storico di un orizzonte di significati nel quale l’uomo è gettato. L’essere che si mostra a noi nel presente non è dunque tutto l’essere: l’essere, infatti, si dà e insieme si nasconde a noi. Heidegger è convinto che viviamo nell’epoca della povertà estrema: la riduzione dell’essere all’ente, cioè la riduzione dell’ente a ciò che io possono cogliere e dominare, con il pensiero e con la prassi, costituisce l’essenza della metafisica, della scienza che da essa deriva e infine della tecnologia, esito estremo di entrambe. Per noi l’ente si riduce ad essere qualcosa da catturare e dominare, utilizzare e manipolare, con il pensiero e con la prassi. La tecnologia non è dunque strumento neutrale che può essere usato entro progetti diversi: essa nasce dal progetto di manipolazione totale e di devastazione del mondo. L’uomo, peraltro, può dominare le cose, ma non la storia, che è per lui destino: destino dell’uomo è oggi la cieca follia devastatrice, di fronte alla quale l’atteggiamento autentico è il lasciar essere e, nel contempo, il porsi nell’atteggiamento dell’ascolto aperto alla possibilità di una nuova epoca dell’essere, cioè di un nuovo orizzonte di significati.

Massimo Dei Cas
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